sabato 1 marzo 2014

[ritratti] - Giulietta (Silvia Devitofrancesco)

Diario impossibile: scrive Giulietta

Sono figlia della penna di Shakespeare. Il mio cognome è Capuleti. Vivo a Verona in un palazzo meraviglioso. Ho tutto: soldi, affetto, lusso, ma, non ho l’amore. La mia famiglia è una delle conosciute di Verona e, anche, una delle più odiate. I nostri acerrimi nemici sono i Montecchi. Ricchi anche loro, per carità, ma, a detta di mio padre, da evitare come la peste.
Una sera fu organizzata una festa qui da me. Durante quella festa successe un evento meraviglioso. Sì, devo parlare di evento, è questo il vocabolo giusto che devo utilizzare… Romeo, il figlio dei Montecchi, giunse…
Fu amore a prima vista, fu un colpo di fulmine. Io non avevo mai creduto nel colpo di fulmine, lo ritenevo una stupidità, ma, quella volta, dovetti ricredermi. Io non credevo nel colpo di fulmine, poiché, fino a quel momento, non avevo idea di cosa fosse un colpo di fulmine. Guardai Romeo e sentii le gambe tremare, la gola mi si era seccata e le guance arrossate, difatti erano bollenti. Sperai con tutta me stessa che anche a lui fosse successa la stessa cosa.
Il mio balcone oggi è preda dei flash proveniente dalle macchine fotografiche di tante mie “ammiratrici”. Tante donne di ogni nazione e di ogni età, che sognano, che sperano, che invocano il mito di Giulietta Capuleti e la famosa scena del balcone. Quella scena è ormai storia, sicuramente tutti voi la conoscete, ma, io, adesso, ve la racconterò dal mio punto di vista…
Io affacciata lì, da sola, per riordinare i miei pensieri e lui, giù, a dedicarmi le parole più belle… quelle parole che solo un uomo innamorato può pronunciare, quelle parole che tutte le coppie di innamorati, in un certo senso, fanno un po’ proprie. Io ero innamorata di lui e lui lo era di me. Tuttavia, non potevamo essere felici. Non potevamo amarci. Non potevamo essere come tutti gli altri a causa di un nome, uno stupido nome: “Cos'è un nome? Ciò che chiamiamo rosa,
con qualsiasi altro nome avrebbe lo stesso profumo, così Romeo, se non si chiamasse più Romeo,
conserverebbe quella cara perfezione che possiede anche senza quel nome. Romeo, getta via il tuo nome, e al suo posto, che non è parte di te, prendi tutta me stessa.”
Io credevo in quell’amore. Io credevo nel suo amore.
Feci molte pazzie per lui, per noi. Ci sposammo di nascosto, trascorremmo la nostra prima notte col batticuore per l’emozione e col timore di essere scoperti, ma, entrambi, sapevamo bene che la nostra felicità non sarebbe durata a lungo.
Dovevo sposarmi. Mio padre aveva scelto il mio uomo. L’amore non si può imporre. L’amore non è un oggetto. L’amore è sentimento, è desiderio, è contatto, l’amore è vita e io con Paride, l’uomo che mio padre mi aveva imposto, non sarei stata viva…
Il mio destino è stato beffardo. Non mi ha regalato la felicità, anzi, mi ha regalato una felicità profumata di morte.
Quando vidi Romeo, il mio unico e vero amore, lì, a terra, senza vita, mi sentii morire. Avevo paura, certo, ma il solo pensiero che nella vita eterna saremmo potuti essere felici insieme, mi fece trovare il coraggio di compiere quel gesto. Io e il mio amore salutammo questo mondo e ci preparammo ad entrare nell’altro.
Solo in quel momento le nostre famiglie capirono cosa significasse il verbo “Amare”.
La mia morte, la nostra morte, vuole lanciare un messaggio: “Amate, amate senza paura, amate senza preoccuparvi del domani, amate anche la morte, se necessario, ma, non rinunciate a provare questa emozione bellissima. Non negatevi all’amore.”
Giulietta se ne andò così, senza sapere che sarebbe diventata un mito. Senza sapere che il suo ruolo sarebbe diventato il più ambito negli spettacoli teatrali di ogni tempo e senza sapere che, un giorno, una donna qualunque, l’avrebbe fatta parlare in questa pagina…

©Silvia Devitofrancesco

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