mercoledì 14 maggio 2014

[il mondo delle donne] - Tempismo (Arianna Berna)

Tempismo


“Ma quanto piove oggi?” chiese Arturo a Beatrice, che si volse nascondendo l’imbarazzo dietro un sorriso gentile, qualsiasi parola le sembrava stupida, perché, mentre lui le parlava del tempo, avrebbe voluto dirgli che aspettava un figlio.

Un cosino stava crescendo in lei e giorno dopo giorno lo immaginava trasformarsi. Quando aveva fatto l’ecografia quella mattina non poteva credere ai suoi occhi, sapeva di essere incinta, ma non immaginava che quel cosino avesse già testa, braccia e gambe. Quanta tenerezza le aveva fatto, così piccolo ed indifeso.

Beatrice quel cosino non lo aveva desiderato, né cercato, era giunto inaspettato, anche perché a quarantadue anni non era proprio una ragazzina sprovveduta. L’ironia della vita, con il marito aveva provato per anni, mentre con questo nuovo amore erano bastati un paio di incontri. Da sposata, aveva provato di tutto per restare incinta, finché la pesante frustrazione di credersi infertile l’aveva separata dall’uomo che aveva sposato.

Arturo era apparso per caso, parecchio tempo dopo il divorzio. Il loro amore era iniziato in sordina ed era esploso senza tante cerimonie. Erano fatti l’uno per l’altra, anime affini e complementari. Artuto abitava in un’altra città e di solito era lui a raggiungerla a Ferrara. La chiamava più volte al giorno e parlavano per ore senza annoiarsi. Non aveva mai ricevuto tante attenzioni in vita sua e questo aveva contribuito a farle perdere la testa.

Beatrice all’inizio non si era insospettita del ritardo, poiché non era mai stata regolare; il pensiero le sembrava poi una tale utopia, incinta? Ma figuriamoci! Impossibile! Però passati due mesi, iniziava ad avere qualche dubbio. Dopo altre due settimane si era decisa ad acquistare un test in farmacia.

Era impossibile eppure era vero. Teneva in mano un test con due lineette rosa: esito positivo. Incredula l’aveva gettato nel cestino del bagno ed era corsa ad acquistarne un altro, questa volta chiese il test migliore in commercio e il più preciso “Guardi signora, questo le indica anche le settimane” ed ebbe la seconda conferma. Dopo un attimo di stordimento, appoggiata al muro del bagno, Beatrice aveva iniziato a piangere lacrime di gioia.

Beatrice aveva uno sguardo sognante mentre ripensava a quei momenti. Arturo, che aspettava una risposta alla sua inutile domanda sul tempo, la fissava stranito “Stai bene mia cara? Sei così distratta oggi”


“Sto bene, sto bene, spero solo che smetta di piovere, Flappy ha bisogno di uscire”

“Invece spero che continui a piovere, potrei restare una vita intera abbracciato a te su questo divano” le rispose lui.

Davanti al caminetto acceso e stretta al suo amore, Beatrice sentiva il cuore gonfio di felicità. Fra una coccola e l’altra si era abbandonata al sonno. Al risveglio Arturo non era accanto a lei, lo sentiva parlare nella stanza affianco e incuriosita lo raggiunse. Arturo era in cucina che stava parlando fitto al telefono, ma appena la vide lo chiuse “Pensavo di preparati una cioccolata, ti va?” “Preferirei un the, ho un po’ di mal di pancia” più che dolori di stomaco, erano le nausee.

Arturo l’osservava preoccupato “Devi andare da un medico, stai male da troppo tempo ormai” “hai ragione, prometto che lunedì ci vado” mentì Beatrice che sapeva benissimo quale era la causa del suo malessere, ma il momento non era ancora arrivato.

Fuori continuava a piovere, Beatrice aveva immaginato di dargli la notizia al parco pubblico, seduti nella loro panchina, dove quattro mesi prima si erano incontrati. Quel giorno, come ogni giorno all’ora di pranzo stava facendo scorrazzare il cagnolino nel parco cittadino. Seduta su una panchina in ferro battuto aspettava con pazienza che Flappy finisse di sgranchirsi le zampe. Era rimasta sorpresa dall’uomo elegante che le si era accomodato accanto. Era rimasta ancora più colpita quando aveva iniziato a parlarle con il pretesto del cane. I minuti erano volati. Il giorno successivo lo rivide, come pure quello a seguire. Il terzo giorno Arturo le chiese il numero di telefono perché sarebbe partito per Milano, ma desiderava risentirla. La riservata Beatrice, proprio lei che in vita sua non aveva mai azzardato nulla, diede il numero. Da una telefonata, all’altra passarono i mesi intervallandosi con gli incontri, mentre le loro anime si stavano innamorando.

Arturo l’accarezzava con tenerezza cingendola in tenero abbraccio, improvvisamente Beatrice decise che era arrivato il momento, al diavolo il parco, si scostò dalla stretta e proprio mentre stava per aprire bocca, lui la sorprese mettendo fra loro un piccolo pacchetto, confezionato con una carta da regalo costosa ed un grazioso nastro di raso “Per i nostri primi quattro mesi” “Non dovevi…” gli rispose Beatrice mentre pensava al prezioso dono che stava per comunicargli. Arturo le aveva regalato un pendaglio a forma di cane, a guardarlo bene assomigliava molto a Flappy. “L’ho commissionato a un orafo di Milano, è il ritratto di Flappy, gli sono debitore, se non fosse per lui non ci saremo mai incontrati” una calda lacrima scese dagli occhi di Beatrice commossa. Persi in un abbraccio che sembrava infinito, furono interrotti da Flappy che cercava di dividerli con in musetto.

Beatrice avvolta e sopraffatta dai sentimenti, galoppava con la fantasia, insieme avrebbero formato una bella famiglia, ne era certa. Immaginava Arturo camminare mano nella mano con cosino, le domeniche in famiglia e una bella casa grande in campagna.

Il momento magico era però passato “Ha smesso di piovere, andiamo al parco a fare una passeggiata” propose Arturo.

Il piccolo Flappy trottava vicino a loro senza guinzaglio. Era poco più grande di un gatto, piuttosto simile ad un cane di razza a pelo corto color miele.

Raggiunta la panchina, Beatrice l’asciugò con dei fazzoletti, finalmente era arrivato il momento e non si sarebbe fatta interrompere un’altra volta.

La tranquillità però l’aveva lasciata, iniziava ad essere agitata, le tremavano le mani, le sue sicurezze stavano svanendo, lasciando spazio alla paura di essere respinta: e se Arturo non fosse stato entusiasta quanto lei? In fondo si conoscevano da così poco tempo.

Con il viso cupo e senza guardalo negli occhi dal troppo imbarazzo iniziò a parlare “Devo parlarti di un fatto serio, è stato uno shock, ho da poco scoperto” prese fiato e proprio mentre stava per dichiarare il proprio segreto, Arturo le appoggiò un dito sulle labbra dicendo “Perdonami, avrei dovuto essere sincero fin dall’inizio. Quando ti ho incontrata il matrimonio era già in crisi, ti giuro che te ne avrei parlato al momento giusto”.

Beatrice rimase perplessa, ma come? Cosa c'entrava questa storia? Che stava succedendo? Stava per comunicare la gravidanza ed invece scopriva che il suo uomo aveva un’altra, anzi peggio, era lei stessa l’altra, l’amante, la rovina famiglie. Aveva la netta impressione che il suo mondo fosse stato travolto e distrutto nella velocità di un battito di ciglia, ma era ancora stordita per afferrare la gravità della situazione, perplessa gli chiese “Scusa sei sposato?”


“Certo, non era questo che stavi per dirmi?”

“No, dannazione, no!” disse con la voce spezzata dal pianto.

Senza null’altro aggiungere si alzò e si allontanò seguita dal fedele Flappy, spettatore ignaro della tragedia appena consumata. Arturo la rincorse fermandola e chiedendole cosa dovesse dirgli di così importante “Dall’espressione seria che avevi pensavo mi avessi scoperto”. Beatrice scosse il capo osservandolo sconsolata. Si sentiva la sfortunata protagonista della commedia degli equivoci. Doveva decidere in fretta, probabilmente aveva di fronte l’ultima possibilità per ricostruire o meglio costruire un futuro con quest’uomo. Guardandolo negli occhi, mentre lui cercava in tutti i modi di suscitare la sua empatia, si rese conto di non desiderare una famiglia con chi già ce l’aveva e, cercando l’ultima conferma, gli chiese “Hai dei figli?”

“Due, un maschio ed una femmina”

“Bene allora sei già a posto così, non abbiamo nulla da dirci”.

Arturo provò a prenderle la mano, che Beatrice ritrasse scappando di corsa con Flappy sotto il braccio.

Ansimante rientrò in casa e si abbandonò sul divano. Travolta da un profondo senso di ingiustizia se la prese con se stessa per essere stata una sciocca credulona, poteva e doveva accorgersene prima. La rabbia galoppava facendole scoppiare la testa, il cuore batteva così veloce da pulsare nel collo e la gola stretta in un singhiozzo strozzato mentre si ripeteva all’infinito stupida, stupida, stupida...

Improvvisamente una forte fitta al basso ventre la fece piegare dal dolore, le viscere si strinsero come in un pugno, era cosino che si ribellava, chiedendo attenzione alla sua mamma. Per la prima volta lo sentì come una presenza effettiva e non come una righetta di un test di gravidanza o la foto dell’ecografia. Dentro di lei esisteva davvero una creaturina. Il desiderio di maternità negli anni frustrato e soffocato sbocciò, trovando una nuova primavera, illuminandola di un inaspettato benessere e con la mano iniziò ad accarezzarsi la pancia, sussurrando al suo bambino parole rassicuranti e dolci.

(Sei mesi più tardi)

Cosino, nel frattempo battezzato all’anagrafe come Giulio, aveva impiegato quasi un giorno a nascere, la madre era esausta, ma serena, talmente in pace con se stessa da inviare una foto del piccolo ad Arturo, che nel frattempo non aveva lasciato la moglie, ma nemmeno dimenticato Beatrice.

Quando Arturo ricevette la fotografia si sentì mancare, come se il mondo gli fosse caduto addosso con tutta la sua pesantezza. Gli interrogativi che lo avevano tormentato per mesi trovarono in quell’attimo la loro naturale spiegazione. Non era passato giorno senza che i pensieri giungessero a lei, ma non aveva avuto il coraggio di fare nulla. Con l’immagine del suo bambino negli occhi, fantasticava sulla nuova famiglia, avrebbe voluto correre da Beatrice e dirle che non l’aveva dimenticata e che l’amava più di ogni altra persona al mondo.

Nonostante tutto quest’amore, quanto la moglie arrivò all’improvviso alle sue spalle, sfilandogli di mano il cellulare e domandando spiegazioni riguardo a quella donna con neonato, il coraggio venne meno ed Arturo mentì per l’ennesima volta “Nessuno, solo una collega di Ferrara” cancellando la foto.

La moglie lo guardò non convinta, ma non volendo ricevere certezze ai suoi sospetti preferì cambiare discorso, coinvolgendolo nei loro affari di vita quotidiana

“Mi accompagni a fare la spesa?”

“Certo, vado a prendere la giacca”.

Beatrice a qualche centinaio di kilometri di distanza, si domandava quale sarebbe stata la reazione di Arturo, ma non ricevendo risposta, capì che il loro amore era definitivamente spezzato. 
 
©Arianna Berna






[racconti brevi] - Oggi come sempre (Loriana Lucciarini)



Oggi come sempre

Sbuffo attaccandomi insistentemente al clacson della mia auto. Quello stupido che mi sta davanti non sa proprio decidere se fare manovra o proseguire, ed io se continuo ad aspettare che si muova arriverò a casa il prossimo anno.
Guardo impaziente l’orologio e comincio a tamburellare nervosamente sopra il cruscotto.
Come se non bastasse trovo anche tutti i semafori rossi.
Oggi è proprio una giornata da buttare e far sparire dalla faccia della terra!
Riesco ad arrivare a casa dopo acrobatiche manovre e sbatto la porta di casa scocciata. Butto sul divano bianco latte la borsetta e la giacca e spulcio la posta, come al solito nulla, sempre e solo pubblicità o conti da pagare.
Mi tuffo velocemente in un bagno caldo, piccolo trucco che adotto quotidianamente: un bagno caldo riesce sempre a farmi acquistare un po’ di calma, prima che il mio umore inevitabilmente volga alla cupezza, cosa che accade ormai puntuale quando cala la notte.
Mi faccio un bicchiere di latte e accendo la tv.
Dopo aver visto uno spettacolo mediocre, proprio come il mio stato d’animo e la mia giornata, me ne vado a dormire. Abbastanza stufa del giorno e molto inquieta per la notte.

Eccola la mia vita è tutta qui.
Dovrei dire che sono una donna fortunata perché faccio un lavoro interessante, ho un appartamento tutto mio e sono libera. Ma forse dovrei anche aggiungere che sono felice e non sarebbe la verità, io non sono felice. Il perché non è chiaro, forse sono un’eterna insoddisfatta. E dire ci sarebbero tante ragazzine che aspirerebbero al mio posto di modella. Un bel lavoro, fashion, glamour, set fotografici in giro per il mondo, interviste, sfilate, bella gente, party. Ma tutta questa è davvero felicità? Potrebbe esserlo per altri, ma non riesce ad esserlo per me.

Eppure in passato son stata felice. Conosco e ricordo in modo vivido e puntuale la sensazione di esaltata serenità, di assoluta completezza e armonia tra me e il mondo che mi circondava. Sono tutte emozioni relegate ai primi anni della mia infanzia, ricordi di me bambina. Di una me forse meno perfetta ma più vera; forse la sola vera me. Quando chiudo gli occhi e cerco di immaginare la parola “felicità”, brevi flash emergono dal passato e hanno una forza potente e luminosa. Non sono sbiaditi dal tempo ma, anzi, hanno più colore di quello che vedo oggi. Io e il mio cane Jimmy, a correre a perdifiato nel prato; le mie gambe bagnate dalla rugiada della mattina mentre dalla terra sale il profumo dell’erba; un profumo che non ho mai dimenticato e che ritorna preciso e perfetto come allora ad emerger dalla memoria. Io e il mio papà seduti sulla panchina fuori casa, lui a fumar la sigaretta e io con il naso all’insù a cercar stelle che non trovavo mai ma che trovava lui per me. Il mio papà a indicarle con il dito della sua grande mano da contadino, e io che in quelle sere, al buio fuori il portico di casa e nel silenzio interrotto solo dalla musica dei grilli, ho sempre pensato che il mondo fosse bellissimo e perfetto, come le luci che dal cielo splendevano sopra la mia testa. Mia sorella ed io, ancora bimbette con la cartella in spalla in attesa della corriera, a quella fermata di mattina presto con l’aria ancora frizzante che la notte lascia per scia, l’odore della terra ancora addormentata sotto il manto di stelle che lentamente si dileguano nel bagliore dell’aurora. La mia mamma che cantava allegra mentre rassettava la casa ed io che sbirciavo dentro il forno per vedere quanto cresceva il ciambellone. La nonna, donna anziana e rugosa, che profumava di sapone e regalava caramelle a tutti come fosse la fata dei dolci.
Profumi, odori, colori del passato che sento ancora tutti, ancora oggi, ma oggi tutto questo non c’è più ed io non lo ritrovo da nessuna parte, anche se viaggio molto, anche se vedo bella gente, anche se vivo nel mondo glam di moda luci e paillettes.

Ma è la vita che non dispensa più attimi sereni o sono io che sono cambiata, dentro, per non essere più capace di essere felice? Che fine ha fatto la bambina che ero, dalle ginocchia sbucciate e dai calzoni corti? Dov’è l’adolescente che guardava con stupore ed orgoglio il proprio corpo cambiare e diventar meraviglioso? Dove ritrovo la me che sono ora nel ricordo di quella ragazza spersa, arrivata forse troppo giovane nella grande Milano della moda, catapultata in un mondo troppo bello e troppo diverso dal suo, eppure così magico e affascinante? Quando mi sono trasformata in una donna bellissima e glaciale, scontenta e indifferente? C’è stato un momento in cui tutto è cambiato o mi sono semplicemente fatta cambiare senza accorgermene?
La notte è troppo lunga quando si hanno risposte da cercare, ma son diventata brava a traghettarmi al giorno dopo, anestetizzando l’anima. Ad acquietare i miei demoni e condurmi al sonno ci pensano i tranquillanti, almeno per qualche ora.

Ecco, oggi è un altro lungo interminabile e insopportabile giorno. Ci saranno le prove per una nuova sfilata, i consigli della coreografa, l’incontro con il truccatore, la parrucchiera e anche la palestra…
Vorrei cambiar vita, ma è così difficile. E’ un salto nel vuoto che non sono pronta a compiere. Neanche se forse dall’altra parte troverei l’altra me, quella felice. Così scivolo in un nuovo vestito e, ingoiando un caffellatte, annego i miei pensieri.
Continuerò a vivere questa vita, oggi come sempre, perché sono una vigliacca, una donna persa che non è capace a ritrovarsi e ricominciare da capo. Una donna che non ha il coraggio di voler cambiare perché volere è già un atto di coraggio e, forse, basterebbe solo questo, il coraggio, per iniziare già a cambiar tutto.
Una donna che vive in bianco e nero, non perché sia trendy, ma perché non riesce più a trovar colori e questa non è una scelta ma una sconfitta. Così continuo a naufragare sospinta dalla corrente del lasciarmi vivere. Così, oggi come sempre…

©Loriana Lucciarini

[poesie] - Un dolore in una notte (Silvia Devitofrancesco)




UN DOLORE IN UNA NOTTE

Notte.
Riposo della natura.
Meravigliosa notte.
Resto ferma, immobile davanti alla finestra.
Ti contemplo, o cielo nero.
Accarezzo l’oscurità che mi rappresenta.
Il sole è tramontato.
Sceso, dissolto nel rosso del tramonto.
La luce si è spenta e ha lasciato posto alle tenebre.
Nessuna voce si ode. Silenzio.
Silenzio, silenzio e battiti.
I battiti del mio cuore affranto.
Sola in questa notte di gelo e di ricordi.
Occhi.
I suoi occhi nei quali mi specchiavo.
Bocca.
La sua bocca che si poggiava sulla mia,
la sua bocca che si nutriva del mio sapore.
Mani.
Le sue mani che si intrecciavano con le mie,
le sue mani che scioglievano i miei capelli,
le sue mani che sfioravano il mio corpo, con grazia, con fremito e con desiderio.
Niente più.
Tutto lontano, finito, dissolto.
Un pezzo di cuore.
Il mio cuore.
Cuore trafitto, deriso.
Cuore senza battiti.
Cuore privo d’amore.
Cuore morto.
La finestra è umida, bagnata dalle mie lacrime, acqua vitale, sale e dolore.
Guardò laggiù, lontano, l’orizzonte
Mi sembra di udire la voce di mia madre
Il mio pianto di bambina
I sorrisi di quando conoscevo il significato del termine “Vita”.
Notte, misteriosa notte
Solo tu conosci i sentimenti e le sfaccettature degli animi,
donami la forza per tornare ad amare.
Amare senza indugi,
amare senza paure,
amare per il gusto stesso di bagnarsi le labbra con dolci parole.
Perché l’amore è solo amore.
                                                                                 

©Silvia Devitofrancesco
 



[ritratti] - Madame Bovary (Monica Coppola)

Gustave Flaubert

"La sua vita era fredda come una soffitta che ha il finestrino volto al nord, e la noia, come un ragno silenzioso, filava la sua tela nell'ombra in ogni angolo del suo cuore"


Emma affondò il pettine tra la massa setosa dei capelli bruni, scuri come quell’ombra che si attorcigliava intorno alla sua vitalità, e spalancò la finestra per non soffocare nell’incedere lento delle sue giornate.
Alzava gli occhi neri verso le nuvole dense che, irrequiete, si ammassavano nel cielo sballottate da aliti di vento. Sospirava e immaginava la vita che avrebbe voluto per sé: distese di tappeti morbidi dalle frange dorate, saloni tappezzati di specchi su cui si riflettevano le variopinte esistenze di marchesi e duchesse.
Lei, invece, come una spettatrice immobile era destinata a scorgere solo i bagliori opachi di quel mondo sublime che le sfuggiva come sabbia tra le dita sottili.
Sommersa da un’asfissiante monotonia Emma rievocava frammenti di ricordi lontani che, come valzer lenti, fluttuavano nella sua mente tormentandole l’anima.
E allora provava a ravvivare i colori sbiaditi della sua realtà sistemando vasi di vetro azzurro e scatole d’avorio sul camino o si cospargeva di acqua di Colonia per allontanare quell’ effluvio di pungente mediocrità che, vischioso, le restava impresso nell’anima e sulla pelle.
Aveva modi cortesi e gentili come il suo aspetto, ma dentro esplodeva come un vulcano iracondo che riversava lava inzuppata di bramosia, rabbia, odio.
Era invasa da un freddo che non le dava tregua perché sapeva che il suo dolore non sarebbe mai finito.
Provava a combatterlo rannicchiandosi accanto al fuoco: cercava tra il crepitio delle fiamme una luce calda che potesse ridestare quella vita che sembrava passarle accanto sfiorandola appena, come se attraversasse l’esistenza senza viverla davvero.
E ad un tratto quella fiammella si accese ed accadde qualcosa che la sorprese e la invase: Emma si sentì rianimata e mentre si perdeva tra le braccia del suo amante pensava che “avrebbe finalmente posseduto quelle gioie dell’amore, quella febbre di felicità di cui aveva disperato. Entrava in qualche cosa di meraviglioso , dove tutto sarebbe stato passione, estasi, delirio (…) l’esistenza comune le appariva ormai lontana, in basso, nell’ombra…”
La sua illusione fu breve come un lampo e la realtà la risvegliò con la durezza d’un nocciolo di albicocca: il fiele delle menzogne le esplose tra le labbra rivelando il sapore aspro di un sentimento in cui aveva creduto lei soltanto.
Quella stessa luce che l’aveva irradiata anche nelle notti più torbide, adesso era scomparsa e non restava che il buio pronto a prenderla per mano per trascinarla in un abisso profondo.
Emma voleva essere libera di scegliere per sé una vita diversa, voleva andare oltre i continui impedimenti, le convenienze, le leggi per opporsi a quel fato capriccioso che le era stato cucito addosso come un abito sbagliato. E se così non poteva essere allora era pronta a sfiorare il profilo del cielo, lasciandosi cadere libera nell’abbraccio dell’aria.
Ma la vita l’agguantò di nuovo, beffarda, perché ancora non era sazia di lei: la circuì con nuovi vagheggiamenti alimentati da speranze di cartapesta.
Perché Emma non poteva essere artefice del suo destino, il suo destino aveva già scelto per lei; e quando lei si ribellava la teneva in pugno abbagliandola con una manciata di fragili illusioni che cadevano come coriandoli sulla sua triste realtà.
E una mattina d’estate, Emma sentì di nuovo il profumo dell’amore e tra le navate di una chiesa la luce filtrò ancora, fino ad illuminarle il cuore pallido che esplose come il sole all’alba.
Le sue resistenze finirono come briciole di “carta stracciata che si dispersero al vento e caddero lontano, come farfalle bianche su un campo di trifoglio rosso tutto in fiore” e si sciolsero dietro le tendine gialle di una carrozza che “più chiusa di una tomba e sballottata come una nave” vagabondava incessante senza fermarsi mai.
E mentre Emma cedeva arrendevole alla sua straziante felicità, il suo destino bramoso divorava ogni scaglia della sua gioia e diventava una forza potente e avida che le cingeva i fianchi e la spingeva giù, sempre più giù, tra quelle voragini profonde in cui, avvelenata dalla sua stessa fantasia, l’avrebbe lasciata scivolare per sempre…

©Monica Coppola

giovedì 8 maggio 2014

[stralci di pagine] - Rarefatta solitudine



 
In fondo al lago vulcanico dove siamo sprofondati, regna il silenzio. L'attività del vulcano deve essersi interrotta da tempo immemorabile.
La solitudine vi si è depositata come fango morbido. Una debole luce, attraversando infiniti strati d'acqua, diffonde i suoi raggi, pallidi come resti di memorie lontane.
[Murakami, "Kafka sulla spiaggia"]

[stralci di pagine] - Grigie intuizioni di pericolo


Max intuiva che dietro gli avvenimenti degli ultimi giorni doveva nascondersi un qualche significato logico. La sensazione di un pericolo imminente era palpabile nell'aria e, se ci si soffermava a pensare, era possibile tracciare una linea progressiva delle apparizioni del dottor Cain. ["Il principe della Nebbia" - C.R. Zafòn]

[stralci di pagine] - Nel buio si percepisce...


La candela illumina il buio, non lo scaccia. 
Al fuoco dello stoppino il bicchiere di vino nel vetro piglia luce dentro, l’olio splende, il pane sente il fuoco e si mette a profumare.
[Erri De Luca, “Montedidio”]