Gustave Flaubert
Emma affondò il pettine
tra la massa setosa dei capelli bruni, scuri come quell’ombra che
si attorcigliava intorno alla sua vitalità, e spalancò la finestra
per non soffocare nell’incedere lento delle sue giornate.
Alzava gli occhi neri
verso le nuvole dense che, irrequiete, si ammassavano nel cielo
sballottate da aliti di vento. Sospirava e immaginava la vita che
avrebbe voluto per sé: distese di tappeti morbidi dalle frange
dorate, saloni tappezzati di specchi su cui si riflettevano le
variopinte esistenze di marchesi e duchesse.
Lei,
invece, come una spettatrice immobile era destinata a scorgere
solo i bagliori opachi di quel mondo sublime che le sfuggiva come
sabbia tra le dita sottili.
Sommersa da
un’asfissiante monotonia Emma rievocava frammenti di ricordi
lontani che, come valzer lenti, fluttuavano nella sua mente
tormentandole l’anima.
E allora provava a
ravvivare i colori sbiaditi della sua realtà sistemando vasi di
vetro azzurro e scatole d’avorio sul camino o si cospargeva di
acqua di Colonia per allontanare quell’ effluvio di pungente
mediocrità che, vischioso, le restava impresso nell’anima e sulla
pelle.
Aveva modi cortesi e
gentili come il suo aspetto, ma dentro esplodeva come un vulcano
iracondo che riversava lava inzuppata di bramosia, rabbia, odio.
Era invasa da un freddo
che non le dava tregua perché sapeva che il suo dolore non sarebbe
mai finito.
Provava a combatterlo
rannicchiandosi accanto al fuoco: cercava tra il crepitio delle
fiamme una luce calda che potesse ridestare quella vita che sembrava
passarle accanto sfiorandola appena, come se attraversasse
l’esistenza senza viverla davvero.
E ad un tratto quella
fiammella si accese ed accadde qualcosa che la sorprese e la invase:
Emma si sentì rianimata e mentre si perdeva tra le braccia del suo
amante pensava che “avrebbe finalmente posseduto quelle gioie
dell’amore, quella febbre di felicità di cui aveva disperato.
Entrava in qualche cosa di meraviglioso , dove tutto sarebbe stato
passione, estasi, delirio (…) l’esistenza comune le appariva
ormai lontana, in basso, nell’ombra…”
La sua illusione fu breve
come un lampo e la realtà la risvegliò con la durezza d’un
nocciolo di albicocca: il fiele delle menzogne le esplose tra le
labbra rivelando il sapore aspro di un sentimento in cui aveva
creduto lei soltanto.
Quella stessa luce che
l’aveva irradiata anche nelle notti più torbide, adesso era
scomparsa e non restava che il buio pronto a prenderla per mano per
trascinarla in un abisso profondo.
Emma voleva essere libera
di scegliere per sé una vita diversa, voleva andare oltre i continui
impedimenti, le convenienze, le leggi per opporsi a quel fato
capriccioso che le era stato cucito addosso come un abito sbagliato.
E se così non poteva essere allora era pronta a sfiorare il profilo
del cielo, lasciandosi cadere libera nell’abbraccio dell’aria.
Ma la vita l’agguantò
di nuovo, beffarda, perché ancora non era sazia di lei: la circuì
con nuovi vagheggiamenti alimentati da speranze di cartapesta.
Perché Emma non poteva
essere artefice del suo destino, il suo destino aveva già scelto per
lei; e quando lei si ribellava la teneva in pugno abbagliandola con
una manciata di fragili illusioni che cadevano come coriandoli sulla
sua triste realtà.
E una mattina d’estate,
Emma sentì di nuovo il profumo dell’amore e tra le navate
di una chiesa la luce filtrò ancora, fino ad illuminarle il cuore
pallido che esplose come il sole all’alba.
Le sue resistenze
finirono come briciole di “carta stracciata che si dispersero al
vento e caddero lontano, come farfalle bianche su un campo di
trifoglio rosso tutto in fiore” e si sciolsero dietro le
tendine gialle di una carrozza che “più chiusa di una tomba e
sballottata come una nave” vagabondava incessante senza
fermarsi mai.
E mentre Emma cedeva
arrendevole alla sua straziante felicità, il suo destino bramoso
divorava ogni scaglia della sua gioia e diventava una forza potente e
avida che le cingeva i fianchi e la spingeva giù, sempre più giù,
tra quelle voragini profonde in cui, avvelenata dalla sua stessa
fantasia, l’avrebbe lasciata scivolare per sempre…
©Monica Coppola
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