Mi chiamo Anna ho quarant’anni e mentre faccio l’amore penso alla lista della spesa.
Devo ricordarmi di comprare il prosciutto cotto e di farmi tagliare le fettine sottili sottili se no poi i bambini non lo mangiano.
E le patatine, quelle surgelate a bastoncini, anche se le detesto perché l’odore dell’olio poi si impregna sulle piastrelle e sui miei capelli, e bisognerebbe ripulire tutto per bene, ma io quel tempo mica ce l’ho …
Mi chiamo Anna ho quarant’anni, due figli e l’unico momento in cui penso a me stessa sono i trenta minuti della pausa pranzo.
Pizzico piano l’insalata dal contenitore di plastica opaca sopra la scrivania minuscola, mastico lattuga e valeriana e, lentamente, guardo fuori.
Questi trenta minuti sono solo per me.
Lascio scorrere i pensieri oltre la finestra, liberi di evadere tra gli interstizi delle veneziane che penzolano sui vetri, come coperte polverose e stanche.
E poco importa se poi sbattono contro quel cortile chiuso che, con fare quasi beffardo, mi ricorda che una come me non andrà più da nessuna parte…
Resterò parcheggiata qui, ancorata al mio destino, come un auto che ha macinato migliaia di chilometri, infaticabile, ma un giorno, improvvisamente, si è svegliata, troppo stanca, e allora si è arresa fermandosi alle intemperie rugginose di un parcheggio scoperto.
Poi le lancette si avvicinano, quasi a formare una piccola L ma dall’angolo più stretto, io risciacquo in fretta il contenitore, butto giù un caffè, troppo caldo e troppo amaro, e soffoco veloce la mia essenza sotto strati pesanti di numeri telefonici, anagrafiche sconosciute e fatturati insoluti.
Lo faccio perché il mio lavoro voglio farlo bene, anche se non mi piace.
E non mi piace perché mi intorpidisce l’anima.
Ma, nonostante questo, vado avanti.
Non sono una di quelle che si siede alla scrivania e pensa ai fatti suoi, come alcune colleghe che mi osservano con sguardi torvi, poi bisbigliano, piegano gli angoli delle labbra all’ingiù e vanno a farsi servire un bel pasto caldo, al bistrò di sotto, senza mai invitarmi.
Forse lo fanno perché io non sono molto socievole.
Ho imparato che è meglio farmi i fatti miei, dare poca confidenza.
Buongiorno, buonasera e via.
Tempo ne ho poco e, quel poco che ho, non lo voglio perdere in conversazioni che non sanno di niente e mi costerebbero troppa fatica e io, di fatica già ne faccio troppa…
Mi chiamo Anna, ho quarant’anni e dopo l’università mi sentivo ambiziosa, preparata e tenace.
Avrei voluto correre, scalpitante, verso i binari del mondo professionale.
Saltare tra gli scompartimenti, metterli sottosopra, ispezionare centimetro per centimetro ogni vagone.
Avrei voluto aprire tutte le valigie delle opportunità, misurarle una ad una, per vedere quale mi stava meglio e dopo, soltanto dopo, scegliere quella più adatta a me.
E invece quei treni sono passati in fretta, e io non sono riuscita a salirci sopra.
C’era troppa gente, più veloce, più abile, più scaltra.
E allora ho dovuto accontentarmi di indossare professioni che non avevano la mia taglia, sfilacciate come gli orli di un desiderio cucito male.
Ho oscurato le mie competenze sotto un grembiule informe e incolore, vagando smarrita come uno spettro privato dell’anima, tra gli scaffali gelidi di un supermercato.
E, giorno dopo giorno, tutte quelle scatole, quei codici a barre e i cartelloni fosforescenti delle offerte speciali hanno iniziato a rosicchiarmi le ossa e l’identità.
Ero solo un “ANNA” qualsiasi, in mezzo a tante, come strillava il badge in un brutto corsivo, pinzato sotto al colletto in poliestere.
Ero diventata nessuno.
Così mi sono alzata, ho ripiegato bene il grembiule, sfilato il lucchetto dall’armadio metallico, e poi ho stracciato il cartoncino con il mio nome.
Volevo tornare ad essere me.
Cercavo un nuovo lavoro e invece ho sbattuto contro l’amore: mi sono lasciata travolgere dalle emozioni, irruente, indomabili, quasi invivibili.
Ma dopo qualche calendario sfogliato, quei sentimenti sono diventati soffusi, impalpabili, come un liquido malinconico che ti oscilla dentro e ti annebbia la mente.
Le mie ambizioni sono inciampate sopra due figli da tirare su, che mi chiedevano patate fritte e prosciutto cotto, dalle fette molto sottili.
E mi sono accorta che non avevo scelta: dovevo tornare ad essere nessuno.
Ho barattato la mia conoscenza con gli auricolari di una cuffia telefonica, di quelle con la circonferenza troppo piccola, che ti stringono le tempie e ti tormentano la fronte con il metallo freddo.
Ma tu devi metterle e stare zitta, perché fuori c’è la folla, quella scaltra e veloce, e se perdi tempo finisce che arriva anche qui e ti porta via questo lavoro e poi voglio vedere…
Io però non voglio vedere, e allora vomito dentro al microfono, che tagliente mi sfiora le labbra, litanie incessanti di parole per recuperare briciole di crediti, sepolte chissà dove.
Parlo tanto, fino a sfinirmi, e quando arrivo a casa non ho più voglia di farlo.
I miei desideri un giorno si sono accorti del silenzio e, forse per farmi meno male, hanno attraversato in punta di piedi le piastrelle unte e sono scivolati via.
E una notte l’amore ha fatto lo stesso: ho avvertito appena una carezza ruvida sopra la mia guancia addormentata e poi più nulla…
Mi chiamo Anna ho quarant’anni, due bambini da crescere, un appartamento che odora di fritto, un lavoro precario in un call centre e una vita senza sogni e quando faccio l’amore all’amore non ci penso più…
©Monica Coppola
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