lunedì 2 giugno 2014

[racconti brevi] - Una ferita che brucia (Silvia Devitofrancesco)


UNA FERITA CHE BRUCIA 

L’amore che un figlio, di qualunque età egli sia, prova nei confronti della propria madre è qualcosa di smisurato e difficile da esprimere con le parole. Metaforicamente parlando, la madre diviene, per il proprio figlio, un porto sicuro quando il mare è in tempesta. Anche io, ovviamente, la pensavo così. Vedevo in mia madre, più “vecchia” di me di soli diciassette anni, una maestra di vita, nonché una grande confidente ed ero certa che non avrebbe mai tradito la mia fiducia, ma, ahimè, mi sbagliavo. Io e mia madre eravamo identiche: stesso sguardo, stesso colore di capelli, stesse passioni. Sono estremamente convinta, infatti, che anche le passioni facciano parte del corredo genetico di un individuo e io avevo ereditato dalla figura materna una grandissima passione per i libri. Mia madre era una grande lettrice-critica. Comprava i libri, li leggeva tutti d’un fiato fino a notte fonda e poi scriveva una sua personale critica letteraria. Fu grazie a questa sua passione che conobbe mio padre.
Un giorno, uscita dal liceo classico, mia madre decise di fare una sosta in libreria prima di tornare a casa per pranzo. Varcò con sicurezza le porte di legno e si immerse nel magico mondo che esse racchiudevano. Vagò per un’ora o poco più tra gli scaffali, afferrando volumi e leggendo le quarte di copertina, quando una voce maschile la fece sobbalzare piacevolmente. <<Salve signorina, posso esserle utile?>> Mia madre si voltò. Davanti a lei, un commesso dal volto sorridente la stava guardando attendendo la sua risposta. <<No, grazie, sto dando solo un’occhiata.>> rispose lei educatamente con la voce che le tremava. <<D’accordo, fai pure. Se hai bisogno di me, mi trovi laggiù. Fidati, io so tutto sui libri!>> <<Grazie>> Mia madre, in quel momento, pensò tra sé: <<O cielo, che tipo antipatico e presuntuoso!>> Rimise i libri al loro posto e tornò a casa.
La giovane ragazzina apparteneva a una famiglia tradizionale estremamente credente e, difatti, lei insieme a mia nonna, si impegnava, spesso, in attività di volontariato presso la vicina parrocchia e quel martedì, giorno dell’incontro epifanico, per usare le parole di mia madre, lei era così strana e confusa che dimenticò l’impegno. Trascorse tutto il pomeriggio seduta alla scrivania in compagnia di un brano tratto dalle “Storie” di Tucidide, il vocabolario di greco e il volto di quel giovane commesso impresso nella mente. Era bellissimo: sguardo profondo, diretto sulla realtà, barba lunga al punto giusto, fisico scolpito. Mia madre avvampò quando si accorse di desiderare una conoscenza più approfondita dell’aitante giovane. Chiuse il libro e afferrò il diario che teneva chiuso gelosamente nel cassetto della scrivania – quello stesso diario, con la copertina di pelle verde, che insieme ai movimenti del caso, è stato la causa della fine dell’affetto tra me e lei – e iniziò a scrivere tutto quello che era accaduto quel giorno, mettendo in risalto le sensazioni che quell’incontro puramente casuale aveva procurato in lei e che lei non avrebbe osato confessare nemmeno sotto tortura.
Fu un “colpo di fulmine”. I due si rividero e si piacquero. Il ragazzo era un neolaureato in lettere con una situazione familiare difficile alle spalle e sembrò trovare, accanto alla ragazza di buona famiglia, la sua serenità. Insieme sprigionavano vita e, una sera di maggio, io bussai alla loro porta. Era una sera calda, l’ideale per una passeggiata al mare al chiaro di luna. E fu proprio lì che i miei genitori crearono me. Mia madre, nel suo diario, usò parole dolcissime per raccontare questo episodio, dopotutto era una giovane donna innamorata. Appunto giovane e, per questo, ingenua.
Quando si accorse di aspettare me, mia madre corse subito in libreria. Avvicinò mio padre con un pretesto e gli comunicò la lieta novella. Lui le sorrise e la mandò a casa per riposare. Da quel giorno i due si persero. Mia madre tornò ripetutamente in libreria, ma nulla. Non esistevano i cellulari, le mail, facebook o twitter, per cui dovette prendere coscienza di essere sola. Visse dei mesi difficili influenzati anche dal contesto socio-familiare di fine anni settanta, infatti, era quasi un sacrilegio aspettare un figlio e non avere un marito. La povera donna confidava le sue paure al fedele diario e, sempre camminando a testa alta, riuscì a partorire e a continuare gli studi laureandosi e fondando una piccola ma rilevante casa editrice che denominò “Tutto sui libri”, la frase che le aveva rapito il cuore, quasi una memoria del suo unico grande amore.
Io, per quanto fossi stata simile a lei, non avrei mai potuto eguagliare la sua bellezza pura, evidente e ineffabile allo stesso tempo. Mi sentivo, rispetto a lei, diversamente bella.
Divenuta, ormai, anche io una donna e avendo scoperto l’amore, una sera invitai a cena il mio fidanzato, mio coetaneo, per avere la sua approvazione. A fine serata mia madre gli strinse la mano, lo guardò affettuosamente e ci augurò ogni bene. Non ebbi alcun timore o imbarazzo nel raccontarle la mia prima volta o i nostri progetti, tuttavia non sapevo che lei, in quel giovane ragazzo, fidanzato con sua figlia, aveva visto la possibilità di tornare ad amare.
Una mattina, mentre ero intenta a riordinare dei libri, notai, posata sul suo comodino, una copertina di pelle verde. Mi avvicinai e mi accorsi che si trattava di un diario. Lo aprii e riconobbi la sua calligrafia perfetta e così, spinta dalla curiosità, iniziai a leggere qualche pagina. Quelle parole mi produssero un senso di nausea e mi fecero perdere tutte le certezze: mia madre raccontava della sua liasone col mio fidanzato. Lanciai il diario contro il muro, preparai le valigie e scappai via sbattendo la porta. La implorai di non cercarmi più e lei non oppose resistenza, non cercò di farsi perdonare e di ricucire il nostro rapporto speciale, quasi simbiotico e si gettò a capofitto nel lavoro. Non nascondo di essere rimasta delusa. Spesso partecipavo alle presentazioni dei suoi libri e la osservavo da lontano, nascosta tra le gente. Appariva forte, sicura di sé, caparbia mentre io stavo provando a ricominciare da me e dalle mie passioni per trovare un nuovo equilibrio, anche se, ogni volta che mi guardavo allo specchio, in me trovavo lei e questo mi faceva male. Cambiai look, cambiai città e smisi di seguire gli eventi della sua casa editrice cosicché lei uscisse definitivamente dalla mia vita e, devo ammettere con fierezza, che ci riuscii.
Due anni dopo mi fu recapitata una lettera per informarmi che mia madre aveva perso la vita durante un incidente stradale e che mi sarei dovuta recare dal notaio per ereditare la casa editrice. Una lacrima amara mi rigò il volto e, forse davanti alla morte, la perdonai.

©Silvia Devitofrancesco

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